Oggi, giovedì 11 marzo 2021, durante la diciassettesima edizione della settimana della cultura scientifica e tecnologica, ci siamo imbattuti in un particolare ma al contempo interessante laboratorio, organizzato dalla classe prima sezione Q e diretto dal prof. F. Sabatini.
In Italia non c’è sempre stato un Sistema Sanitario Nazionale e tutto ciò che noi, al giorno d’oggi, diamo per scontato, per i nostri nonni non lo era affatto. È proprio intorno a questa tematica che si innesta il lavoro svolto dalla classe 1° Q.
Al nostro ingresso nell’aula virtuale l’accoglienza è stata particolarmente calorosa, gli alunni sono riusciti piacevolmente a catturare la nostra attenzione: non si sono banalmente limitati ad esporci l’argomento trattato, ma coinvolgendoci direttamente, ci hanno parlato del percorso scolastico che li ha portati in questi mesi alla realizzazione di un laboratorio di questo tipo.
Il discorso è partito da una riflessione sulla quale pochi di noi si soffermano: quale era la situazione sanitaria qualche secolo fa? Il 1861 aveva portato l’Italia ad un cambiamento radicale, l’unità, ma in campo medico come ce la passavamo? In che modo veniva garantita la salute della popolazione?
La risposta è semplice: la salute era controllata dalle mutue, casse di previdenza per i lavoratori nate dalle lotte operaie, che ben presto purtroppo divennero fonte di disuguaglianza sociale dal momento che la salute non era un diritto di ogni singolo cittadino, ma esclusivamente dei salariati.
La strada da fare per eliminare queste disparità era ancora lunga: abbiamo dovuto aspettare più di un secolo per ottenere la tanto attesa uguaglianza con l’istituzione del Sistema Sanitario Nazionale nel 1978.
“La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”
Queste parole, contenute nell’articolo 32 della Costituzione Italiana, rappresentano, nella loro attuazione, il traguardo raggiunto dall’Italia che oggigiorno garantisce a tutti noi un’adeguata assistenza medica.
Sicuramente significativi e d’effetto sono stati gli interventi dei parenti più anziani degli alunni della classe 1°Q che hanno fornito una testimonianza attendibile riguardo le problematiche connesse ad una scarsa organizzazione sanitaria nell’Italia di 70 anni fa.
Ovviamente adesso la situazione è cambiata e a testimoniarlo è la dottoressa del liceo che ha fornito, con il suo breve discorso, maggiore attendibilità alle informazioni esposteci dagli alunni. L’esperta ha espresso la sua opinione riguardo i vaccini, in particolare per quelli contro il virus COVID-19 attualmente in circolazione, affermando che essi, nel corso dei secoli, hanno salvato l’umanità da svariate epidemie. Il suo consiglio è stato proprio quello di vaccinarsi, nel caso se ne dovesse avere la possibilità.
In conclusione, il laboratorio è stato veramente interessante e molto istruttivo; noi, come membri del blog della scuola, ci sentiamo di consigliarne a tutti voi lettori la visione. Grazie e buon proseguimento di settimana scientifica!!!
Cosa accomuna un centro termale e un soffione boracifero? L’energia geotermica!
Alla diciassettesima edizione della Settimana della Cultura Scientifica e Tecnologica, l’ingegnere chimico Franco Sansone ne ha illustrato le caratteristiche e il modo in cui questa viene utilizzata dalle centrali per la creazione di energia elettrica.
Che cos’è quindi l’energia geotermica?
Questa è definita come il calore contenuto all’interno del magma che risale in superficie sotto forma di vapore. La terra infatti, al momento della sua formazione, più di 4,5 miliardi di anni fa, racchiuse nella sua parte più interna materiali radioattivi il cui decadimento nucleare ha generato calore con temperature sempre più alte in base alla profondità; possiamo infatti dividere il nostro pianeta in quattro strati: crosta, mantello, nucleo esterno e nucleo interno.
Nella crosta, che si estende fino ai 35 km di profondità, per un gradiente di 30°C/km, presenta una temperatura di circa 1000°C nella sua parte più interna; il mantello si estende invece dai 35 i 2900 km e raggiunge la temperatura di 3400°C. Il centro della terra invece, il punto più caldo, si trova a 6500 km dalla superfice terrestre e la temperatura arriva fino ai 6500°C.
A noi però interessa ciò che accade nella crosta terrestre, dove sono presenti anomalie termiche in diverse zone del pianeta che, oltre ad una maggiore concentrazione del calore, sono caratterizzate da frequenti fenomeni sismici. In queste regioni infatti sono presenti i margini delle placche tettoniche che presentano tre tipi possibili di movimento: divergente, convergente e il lateral sliding.
Sono soprattutto grazie ai primi due tipi che è possibile l’utilizzo dell’energia geotermica: il primo ha un effetto costruttivo in quanto le due placche vicine, muovendosi, creano uno spazio che permette la risalita del magma; i margini convergenti permettono la formazione di fossati, chiamati trench, che creano una condizione di pressione che comporta alla risalita del magna. Il terzo tipo di movimento invece non presenta alcun effetto sensibile e non vi è quindi nessuna risalita di magma.
È dopo aver chiarito questi concetti che ci si è soffermati su un ulteriore questione: come si trasmette il calore? Per convezione, un tipo di trasporto che viene utilizzato principalmente dai fluidi: il magma fornisce calore alle zone più superficiali della crosta terrestre, scaldando una parte di acqua la quale si espande, riducendo la propria densità, e che viene quindi spinta dall’acqua fredda che la rimpiazza. L’acqua calda ha una temperatura e una pressione tale che, raggiunta la crosta terrestre, libera vapore nell’atmosfera.
È a questo punto che l’Ing. Sansone ha soffermato la nostra attenzione sull’importanza del magma, la cui presenza è una condizione necessaria ma non sufficiente affinché si possa sfruttare una risorsa geotermica. Sono necessari altri e tre elementi: una sorgente di calore, un fluido e un serbatoio che presenta uno strato di rocce impermeabili sopra e sotto ma che, al contrario, è permeabile ai lati in modo tale che sia possibile all’acqua o al vapore di penetrare nel serbatoio.
Nonostante quindi potesse sembrare un tipo di energia estremamente semplici, ci siamo dovuti ricredere: i sistemi geotermici per la produzione di energia elettrica sono esattamente due: quelli ad acqua dominante e quelli a vapore dominante. È quest’ultima la migliore in quanto permette di utilizzare direttamente il vapore per la creazione di energia.
È in questo momento che l’Ing. Sansone ci ha spiazzati: nonostante infatti l’energia geotermica è usata solo per l’1%, esistono più tipi di centrali per ogni sistema geotermico e inizialmente queste centrali non riuscivano a salvaguardare neanche l’ambiente.
Le centrali per i sistemi ad acqua dominante sono ad esempio le centrali a ciclo binario, dove viene utilizzato un fluido basso bollente, organico (per questo chiamate anche ORC), che bolle a pressioni più basse di quelle dell’acqua: l’acqua calda viene estratta dal terreno, attraversa scambiatori di calore, si raffredda e viene iniettata in serbatoi; raffreddandosi, il fluido geotermico riscalda e fa evaporare il fluido basso bollente, il quale anch’esso va in una turbina, si espande e genera energia meccanica e quindi elettrica. Viene poi condensato a bassa pressione, pompato, recupera pressione per essere reiniettato nel suolo.
Per quelli invece a vapore dominate, come la centrale di Larderello, la più importante in Italia, il vapore viene direttamente estratto e inviato in turbina. In questo caso si possono avere due tipi di impianti: il primo a contropressione, non più utilizzato, in cui il vapore espandeva in turbina e veniva rilasciato direttamente nell’atmosfera; il secondo a condensazione, dove il vapore fuoriesce a pressioni molto più basse, espandendosi molto di più per poi, dopo essere stato condensato, viene reiniettato nel suolo.
Reiniezione è quindi estremamente importante: negli anni Settanta si usavano le turbine a contro pressione, il vapore veniva inviato nell’atmosfera e vi era uno sfruttamento del serbatoio; la pressione e la portata man mano diminuivano.
Negli anni 80 iniziò la partica della reiniezione vi fu una ripresa di pressione e di portata, il serbatoio non venne più sfruttato ma “coltivato, rimanendo disponibile continuamente e non fino al suo esaurimento.
Alla fine della conferenza avevamo imparato moltissime cose, approfondendo un tema che molto spesso non viene considerato ma che potrebbe diventare un’importante metodo di produzione di energia rinnovabile.
“L’editing genomico sarà la medicina del futuro e, al momento, ci sono tutte le premesse per far sì che tecniche di questo tipo possano avere l’effetto sperato”: queste sono le parole che il Professor Rodolfo Ippoliti dell’Università Degli Studi dell’Aquila ha pronunciato a conclusione del suo approfondito discorso relativo all’editing genomico dalla biologia alla medicina.
Quando parliamo di editing genomico, parliamo di quello che molti esperti denominano come la “punta di diamante” delle applicazioni tecnologiche relative al mondo della medicina. Non si tratta però di un argomento facile, facciamo infatti risalire gli studi che ci hanno portato verso questa nuova branca della scienza a molto lontano. È con Mendel, due secoli fa, che la genetica ha iniziato il suo corso; infatti, dagli esperimenti con le piante di piselli del biologo tedesco, siamo arrivati alla scoperta della struttura del DNA nel 1953 da parte di James Watson e Francis Crick e agli studi relativi al DNA ricombinante del 1972. In questo lungo percorso molti studiosi e scienziati hanno dato il loro contributo per arrivare fino al giorno d’oggi, in cui possiamo dire di aver raggiunto un punto di svolta: è nata la cosiddetta ingegneria genetica. Essa ci ha dato e ci continua tutt’oggi a dare grandi soddisfazioni, ma di cosa si tratta? Ed in che modo essa può essere utile in campo medico? Sicuramente le risposte a queste domande sono esplicative riguardo l’argomento trattato, ma per comprenderle al meglio dobbiamo avere conoscenze base riguardo la struttura del nucleo cellulare e, più in particolare, riguardo il DNA.
Il DNA è un polimero formato da due catene antiparallele che insieme ai nucleotidi formano una struttura a doppia elica. Con l’avvitarsi su sé stessi, i due filamenti lasciano scoperti dei solchi, precisamente due: il grande ed il piccolo solco. Tenete bene a mente queste due strutture perché saranno fondamentali per comprendere la maggior parte dei meccanismi di editing che verranno trattati successivamente.
L’editing genomico è una tecnologia altamente innovativa che funziona come un “correttore di bozze” del DNA: interviene in maniera precisa per trovare ed eliminare gli errori all’interno del genoma, come ad esempio per i tumori. Sostanzialmente esso permette di correggere un gene difettoso direttamente là dove si trova senza doverne fornire una copia sana dall’esterno. Per raggiungere particolari punti, questi sistemi sono guidati o da proteine oppure da frammenti di RNA.
Per quanto riguarda i sistemi a guida proteica, già dai primi anni 2000, le tecniche più popolari sono le “nucleasi a dita di zinco”, anche chiamate “zinc fingers” e i TALEN, capaci di agire sui genomi con grande precisione, ma che richiedono anche lunghi periodi di progettazione.
La tecnologia delle Zinc Finger Nucleases permette di operare in modo preciso nel genoma, un sogno fino a poco tempo fa.
Le ZFN sono proteine costruite affinché possedessero due tipi di attività: riconoscimento di una specifica sequenza di DNA (la sequenza che vogliamo modificare) e taglio del DNA una volta avvenuto il legame.
Pezzettini molto corti di sequenza possono essere letti da proteine che, scorrendo su l’elica del DNA come un dito su una superficie con dei rilievi, riconoscono “cosa c’è scritto”, legandosi saldamente ad alcune sequenze piuttosto che ad altre.
La domanda sorge spontanea: come fanno tali proteine a riconoscere i nucleotidi? La caratteristica che distingue le unità specifiche del DNA è insita nella sequenza in cui si trovano le basi azotate (adenina, timina, guanina e citosina). Le porzioni che si affacciano sul solco maggiore sono differenti rispetto a quelle che si affacciano sul solco minore e sono le uniche che possono essere riconosciute dal gruppo proteico utilizzato per questa operazione.
Tra i motivi proteici in grado di leggere il DNA, un tipo ha proprio la forma di “dito” che scorre lungo l’elica, e si chiama per l’appunto zinc finger, ossia “dito di zinco” (le “dita” sono mantenute in struttura da ioni zinco).
A questo punto è possibile costruire delle proteine artificiali in laboratorio, specifiche per ciascuna sequenza; ma non è finita qua!!
Unendo queste ad una proteina che di mestiere taglia il DNA, chiamata TALEN, che si comporta come una sorta di forbice molecolare, si apre una spaccatura.
Ma come si arriva a modificare il DNA? Per ora abbiamo solo spaccato tutto… dove vogliamo arrivare? Il DNA si comporta come una ferita che si rimargina, le ZFN infatti, servono a sfruttare i naturali meccanismi di riparazione della doppia elica, ed utilizzarli per riparare il danno andando a sostituire alla sequenza mutata quella artificiale, permettendo di risolvere il problema.
Non dimentichiamoci però dell’altra tipologia di sistemi genetici, quelli guidati da frammenti di RNA… e non immaginerete mai come è nata questa intuizione!
La scoperta delle potenzialità dell’RNA è stata il frutto di un lavoro di ricerca botanica che aveva lo scopo di rendere il colore dei petali di petunia più sgargiante. Si voleva infatti aggiungere copie extra del gene colore, ma si è notato che il fiore più che raggiungere una colorazione più intensa, presentava sulla superficie delle macchie decolorate. Questo effetto si fonda sul meccanismo di silenziamento dell’RNA, determinato dalla presenza di RNA aberranti a doppio filamento; essi una volta arrivati nel citoplasma degradano una delle due catene.
È proprio questo il principio sul quale si fondano i successivi studi genomici che coinvolgono come mezzo l’RNA. E pensare che non siamo nemmeno arrivati a parlare del gioiellino finale dell’editing genetico!!
La vera rivoluzione in questo campo è arrivata nel 2012 con la scoperta del sistema “Crispr-Cas9”, che ha messo in secondo piano i sistemi di editing “Zinc-finger” e “TALEN” che erano stati utilizzati fino ad allora. Crispr-Cas9 ha dimostrato, fin da subito, una potenzialità e versatilità fino a poco prima inimmaginabili! Si utilizza un RNA guida che riesce a collocare nel punto giusto l’enzima di restrizione Crispr-Cas9, il quale taglia il frammento di DNA da modificare; il taglio viene ricucito dalla cellula mediante un DNA toppa, creato da noi e costituito da geni sani al posto di quelli mutati, trasferito attraverso vettori virali e non virali.
E pensare che grazie a questo sistema qualunque tipo di cellula vegetale, animale, inclusa quella umana, può essere modificata geneticamente e la correzione può avvenire anche per un singolo e minimo errore, e ovunque nel genoma. Inoltre, questa tecnica è facile da utilizzare, veloce ed economica, il che ne amplia le potenzialità in ambito terapeutico.
Ma quali sono stati effettivamente i risultati raggiunti nel mondo della medicina?
Grazie alle geniali scoperte dell’editing genomico i passi in avanti sono stati moltissimi; attualmente sono aperti ben 32 studi differenti di trial clinici che si impegnano nel trovare cure a malattie quali tumori solidi, leucemie e anemia falciforme, tutte caratterizzate da mutazioni del DNA con spesso assenza o mancata attività di meccanismi di riparazione.
La strada da fare è ancora molto lunga, ma tutte queste scoperte di editing genomico fanno crescere in noi la speranza che un domani la medicina possa raggiungere un punto di svolta: garantire cure migliori e più specifiche per ogni tipo di patologia.
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